Un viaggio fotografico in Lapponia.
Storia di un incontro con i Sami del Finnmark.
Di Enrico Fulco
Adoro l’odore della Lapponia al mattino…
No, non è uno scherzo. Citazioni cinematografiche a parte, è un odore diverso, che ti colpisce, per la sua … assenza. La sensazione è questa: hai trascorso la notte in una delle caratteristiche case di legno senza balconi, cullandoti del caldo delle stufe elettriche disseminate un po’ ovunque nelle stanze, magari dopo essere crollato dopo una notte di caccia all’Aurora. Ti vesti, rigorosamente a (molti) strati, scendi le ripide scale solo parzialmente consapevole degli scricchiolii di quell’accogliente guscio di legno che sa di rifugio, ti metti gli scarponi, i guanti, il cappello e fai il primo passo fuori dalla porta: la prima cosa che assale le tue orecchie è il silenzio, la completa assenza di umidità, poi viene il freddo sul viso e il formicolio dentro il naso, con l’aria umida dell’ultimo respiro dentro casa che si congela al gelido tocco dei -20°C esterni. È un attimo, poi passa, come del resto ogni altra sensazione olfattiva – percepisci solo il freddo dell’aria, quasi come se l’aria stessa fosse più vuota, più sottile come in alta montagna. È la sensazione di essere in un luogo che, per come sei nato e cresciuto, ti è praticamente alieno.
Per me il grande Nord europeo è un regno quasi mistico, un luogo in cui uno spirito con la giusta propensione può ancor oggi percepire quel sapore di avventura ed esplorazione dell’ignoto che il genere umano, a parti alcuni rari esponenti eletti, ha in gran parte ormai perso. Il pianeta intero è stato mappato, si ha accesso semplice e gratuito ad immagini satellitari che fino a un decennio fa era impensabile anche sognare, e ogni luogo della Terra sembra essere stato esplorato e svuotato dalla magia del suo mistero … eppure, esistono ancora dei luoghi in cui ci si può ancora sentire esploratori, forse più di e per sé stessi che del mondo, ma nondimeno scopritori di qualcosa: sensazioni, esperienze, assaggi di culture non sconosciute all’uomo in generale ma sconosciute a noi in particolare. Esistono luoghi in cui ci si sente più appagati che in altri ad aggiungere nuove aree al proprio personale atlante di conoscenze, magari anche nel modo che personalmente preferisco – lentamente, ed in libertà. La Lapponia è uno di questi luoghi.
Quando si pensa alla Lapponia, le prime immagini che vengono alla mente sono quelle che più spesso leghiamo al Natale: distese sconfinate di abeti innevati, canuti vecchietti vestiti di rosso e renne dall’espressione docile, il tutto immerso in una natura da fiaba. Tuttavia, essa è molto di più di una bella cartolina invernale vista dal suo centro turistico principale, Rovaniemi: è un territorio vasto, aspro, in cui lunghi nastri di black ice, l’asfalto ghiacciato, collegano paesi immersi nel bosco immobile della taiga a coste frastagliate spazzate dai venti. È sinonimo di Natura con la N maiuscola largamente non toccata da mano umana, di quella concezione di great outdoors nata per definire gli sconfinati spazi dei parchi nordamericani, ma che può anche distare solo un paio d’ore di volo da Milano. E soprattutto, è il posto migliore in Europa per poter osservare uno dei più grandi spettacoli della natura: la Dama Verde, l’Aurora Boreale. Ci sono andato soprattutto perché volevo vedere Lei, ma mi ha sorpreso con molto altro. Tra il novero dei ricordi che ancor oggi mantengo più vividi c’è sicuramente l’incontro con il popolo autoctono della Lapponia, i nordici Sami. Lasciatemi provare a raccontare le emozioni e la meraviglia provata nell’essermi trovato (letteralmente!) in mezzo alla tradizione di questo sorprendente e determinato popolo, e ad un approccio di coesistenza con la natura nel suo aspetto più “utilitaristico” molto diverso da quello nostrano.
Le renne della Lapponia: allevate ma libere
La renna è l’animale simbolo della Lapponia: eppure, prima di vederne una per la prima volta non sapevo che le probabilità di vedere una renna selvatica in tutto il territorio scandinavo sono praticamente pari a zero – in Lapponia in particolare la totalità delle renne è costituita da animali da allevamento, e dato che per legge comune ai tre stati scandinavi che li ospitano solo i Sami possono allevarle, ogni singolo animale che vedrete aggirarsi per i boschi o per le spiagge è o sarà a breve di proprietà di una delle famiglie Sami. I Sami allevano infatti le renne in stato semi-brado, marchiando i capi con un taglio ad un orecchio distintivo di ciascuna famiglia e poi immettendole in natura, nella quale cresceranno essenzialmente libere per gran parte dei mesi invernali. Con l’arrivo dell’estate, i capi verranno raggruppati con l’ausilio di cavalli o mezzi a motore e portate a migrare nelle regioni in cui i pascoli sono più prosperi, in alcuni casi con spettacolari quanto complessi guadi di massa dei fiordi – insomma, passatemi il termine, siamo di fronte ad una sorta di transumanza in salsa scandinava.
Nel mio ultimo viaggio in queste terre ho avuto la fortuna di vivere uno dei momenti più spettacolari di questa tradizione, ovvero una delle occasionali riunioni degli animali per selezionare e marchiare quelli che, essendo nati lontani dagli occhi dei mandriani, non appartengono a nessuna delle famiglie.
In queste occasioni, i capi vengono radunati in arene delimitate da ampi recinti di legno, all’interno delle quali allevatori e animali si affrontano in un’animata sfida di muscoli e abilità: uomini e donne tentano infatti di individuare i propri animali identificandoli dai tagli alle orecchie, separando così i gruppi di renne secondo l’appartenenza.
Per facilitare il riconoscimento successivo degli animali essi vengono marcati sommariamente con una vernice spray molto appariscente, e chiusi in altri recinti insieme agli altri capi di proprietà di una data famiglia. Il procedimento è ovviamente più facile a dirsi che a farsi …
Dentro l’arena
Nonostante le renne siano infatti animali essenzialmente docili e non pericolosi, il fatto di essere radunati nei recinti le rende nervose e visibilmente stressate, e nel tentativo di sfuggire alla “cattura” queste cominciano a correre in ogni direzione, saltando gli ostacoli e cercando di evitare in tutti i modi ogni bipede che capiti loro davanti, sia esso armato di bomboletta spray o macchina fotografica. La breve quiete e rilassatezza all’interno dell’arena finisce nel momento in cui il cancello si apre: gli animali si catapultano dentro, in un’indistinta onda di corna (ok, sono palchi, come quelli dei cervi, ma il concetto dovrebbe essere chiaro), si fermano spaesati cercando tutt’intorno una qualunque via di fuga e subito dopo si disperdono correndo in tutte le direzioni. Gli allevatori tagliano loro la strada cercando di isolarle una per una, le bloccano a mani nude mentre scalciano e sbuffano, sollevando spruzzi di neve. L’azione è concitata, i movimenti degli “avversari” rapidi, l’esperienza e la destrezza degli uomini e delle donne nell’arena si vede tutta; fissare in un’immagine ciò che mi sta succedendo intorno diventa velocemente anche una questione di prontezza.
Scatto ancora, tentando di catturare la concitazione del momento. Provo a cambiare inquadratura e punto di ripresa, vagamente conscio che intorno a me la divisione dei capi continua in una baraonda che pian piano va a scemare, man mano che le renne marcate vengono allontanate dall’arena.
D’un tratto la confusione si placa del tutto e mi rendo conto che dentro l’arena siamo rimasti in pochi: tutti gli animali sono stati portati fuori. Mi ritrovo vicino ad uno dei grossi cancelli, e un Sami più anziano mi chiede una mano per aprirlo: il cancello non è particolarmente pesante ma scorre difficilmente sulla neve, e cela un lungo corridoio costruito con recinzioni identiche a quelle dell’arena, solide e abbastanza alte da non permettere agli animali di scavalcarle. In fondo a questo ampio passaggio, molte più renne di quelle che erano entrate nell’arena stanno aspettando il loro turno. Sono tranquille, già quasi tutte marcate con spray dei colori più diversi, evidentemente in attesa di essere smistate ai gruppi delle varie famiglie di allevatori.
Con mia sorpresa, il simpatico Sami che aveva chiesto il mio aiuto mi propone di seguirlo: parla finlandese e io devo rivolgergli in risposta un’espressione un po’ stranita, ma il gesto che mi fa è universale. Io mi aggrego molto volentieri, sollevato dal fatto che ci stia seguendo anche una delle ragazze Sami, con cui avevo scambiato in precedenza qualche parola in inglese.
Un racconto di luce artica
Percorriamo il corridoio passando rasenti alle recinzioni e accanto alle renne, che sembrano solo leggermente infastidite dalla nostra presenza. In lontananza noto che le nuvole si stanno timidamente diradando, e la bella luce del mattino artico inizia a tingere di rosa il mondo. Manca qualche minuto alle dieci di mattina, ma a febbraio il sole a quell’ora è ancora molto basso sull’orizzonte. Arrivati alla fine del passaggio, il corridoio si apre su una scena perfetta: un’arena molto più grande della prima, un cerchio di una ventina di metri di raggio, all’interno della quale corrono instancabilmente centinaia di renne, ricalcando la forma circolare dell’arena in uno stranissimo e quasi ipnotico flusso ininterrotto di palchi e corpi. Il Sami che mi aveva invitato a seguirlo chiede ancora il mio aiuto, sollevando un lungo telo di plastica con cui mi fa capire, sempre a gesti, vuole interrompere quel circolo infinito e instradare le renne verso il corridoio dal quale siamo appena arrivati. Il telo va tenuto dritto e alto affinché le renne semplicemente non lo ignorino, calpestandolo.
Dopo un paio di tentativi falliti riusciamo finalmente nell’intento di spezzare il fiume di renne e molte vanno ad ammassarsi all’interno del corridoio che avevamo percorso poco prima, e subito la magia sembra spezzarsi anch’essa. La massa degli animali si apre e si disperde, continuando incessantemente a correre in piccoli gruppi: spinti dagli ultimi arrivati, gli animali cominciano a riunirsi in prossimità del primo cancello, l’ultima barriera che li separa dai mandriani che dall’altra parte si preparano a riceverli ancora una volta.
Nel frattempo dalle nuvole il sole ha scoperto le sue carte, caldo solo nel colore e bassissimo sull’orizzonte, e lame di luce tagliano il campo di fronte a me. L’anziano Sami mi fa capire che non ha più bisogno del mio aiuto e senza farmelo ripetere riprendo nuovamente in mano la fotocamera.
La confusione di qualche momento prima sta andando a scemare velocemente e le renne si calmano rallentando finalmente la potente corsa, ansimanti ma mai stremate, il che mi permette di provare a fare qualche scatto più ragionato. Giro per la grande arena, tenendo dapprima il sole alle spalle, cercando di portare a casa qualche scatto “sicuro” sfruttando la luce perfetta del momento: la magia della luce Artica impregna ogni cosa, le ombre sono soffici, i colori caldi, l’aria perfettamente limpida … il sogno di ogni fotografo “outdoor”, non soltanto naturalista.
L’anziano Sami che ci aveva accompagnati fino alla grande arena ci fa cenno che è giunto il momento di andare: spinte dal vento le nuvole del mattino si stanno allontanando velocemente e l’orizzonte è quasi sgombro, preludio di quella che sarà una delle rare giornate di cielo assolutamente limpido del viaggio. Mi volto verso il sole ancora molto basso e quasi contemporaneamente le renne cominciano a muoversi nuovamente, forse perché là in fondo il cancello dell’arena più piccola è stato aperto, e vedo l’anziano Sami che si allontana completamente inondato dalla luce dorata, in mezzo al mare di palchi.
Porto velocemente la fotocamera all’occhio e nasce così una delle immagini che più resterà nei miei ricordi di fotografo, nonché forse uno dei miei lavori migliori. La chiamerò poi Enchanted Antlers, palchi incantati, in memoria di quell’incontro particolare e totalmente inatteso con una delle tante, vere, realtà del Grande Nord.